LA SAPIENZA DEI FILOSOFI

ARTICOLI SULLA FILOSOFIA E I FILOSOFI

domenica 10 maggio 2009

Filosofi: Blaise Pascal


Filosofi: Blaise Pascal:
Biagio, figlio di Stefano Pascal, autoritario e rigido, nacque a Clermont, in Alvernia (Francia centrale), il 19 giugno 1623 da famiglia altolocata. La madre morì quando lui aveva tre anni (1626); ebbe due sorelle: Gilberte e Jacqueline. Fu Gilberte a lasciarci una Vita di B. Pascal, scritta poco dopo la morte del fratello, e pubblicata la prima volta nel 1684, a Amsterdam.Il padre lo educò tenendolo dapprima lontano dalla matematica, per fargli prima ben apprendere le lettere classiche, ma Biagio si rivelò capace di leggere Euclide di nascosto e di capirlo da solo, costringendo il padre ad arrendersi all'evidenza di una vocazione più scientifica che umanistica del figlio. Così il padre lo condusse regolarmente alle riunioni di scienziati che si tenevano presso il P. Mersenne. Pascal manifestò un vero genio matematico e già a 16 anni scrisse un Traité des Coniques. Comunque la sua formazione non fu solo scientifica. La stessa sorella Gilberte dice che il fratello continuava a studiare il latino e il greco, ed oltre a ciò, "durante o dopo il pasto, mio padre lo intratteneva ora sulla logica, ora sulla fisica e sulle altre parti della filosofia".Dunque, prima che filosofo, Pascal fu scienziato e inventore. Nel 1639 per dare una mano al padre, mandato a riscuotere le tasse nella turbolenta Alta Normandia (a Rouen), inventò una macchina calcolatrice.A ventitré anni, avendo appreso l'esperienza di Torricelli, fece diversi esperimenti sul vuoto e preparò un Trattato sul vuoto. Non ne uscirono, se non più tardi (nel 1663) che due estratti: De l'équilibre des liqueurs e De la pesanteur de l'air. Ma ci resta un Frammento del Trattato sul vuoto del 1647, che -sostiene la Vanni Rovighi- "è interessante perché ci fa vedere l'atteggiamento di Pascal per quel che riguarda la conoscenza scientifica. È il medesimo atteggiamento che troviamo in Galileo, in Bacone, in Cartesio. Quando si tratta di fisica, di studio della natura, è vano rivolgersi agli antichi, per sapere che cosa abbiano pensato: la testimonianza degli altri, degli antichi servirà per le conoscenze storiche, non per la fisica."Anche nel suo interesse scientifico fu uomo dal forte attaccamento all'esperienza concreta; Sciacca (cit., p. 24) sottolinea come, a differenza di Cartesio, più astratto e interessato all'algebra, Pascal fosse attratto dalle, più concrete, fisica e geometria.Nel 1646 il contatto con Guillebert, parroco di Ronville, che poi diventò direttore spirituale di tutta la famiglia Pascal, e che era giansenista, determinò quella che si suole chiamare la prima conversione di Pascal. Pascal era sempre stato religioso, ma da quel momento decise, secondo Gilberte, di rinunciare alle soddisfazioni mondane e di dedicarsi totalmente alla ricerca di Dio. Continuò però i suoi studi scientifici, a Parigi si incontrò con Cartesio (1647) col quale ebbe discussioni sul vuoto.Contemporaneamente si recò dai "solitari" di Port-Royal ed ebbe modo di trattenersi con loro.Nel 1651 morì il padre di Pascal; la sorella Jacqueline, dopo esserne stata ostacolata dal fratello, entrò come monaca a Port-Royal (1652). Cominciò invece per Biagio un periodo "mondano", durante il quale Pascal divise il suo tempo fra la ricerca scientifica e le conversazioni, il divertissement, con le persone di mondo. Uno di questi "mondani", il Cavaliere di Méré, ci ha lasciato una versione un po' strana, e probabilmente non del tutto attendibile, del rapido mutamento di Pascal che, dall'atteggiamento di totale astrazione nelle matematiche, sarebbe passato all'apprezzamento delle qualità che fanno l'uomo di mondo, l'honnête homme, nel linguaggio di allora."Al di sopra delle regole, della riflessione, Méré pone qualche cosa che egli si rifiuta di definire e a cui dà i nomi di sentimento, di cuore, di esperienza e di istinto, tutti nomi che si ritroveranno con frequenza sotto la penna di Pascal" (Br. min., p. 116). Essere "honnête homme" o "galant homme" vuol dire aver tatto, saper trattare gli uomini, avere senso del concreto. Altro personaggio col quale Pascal ebbe a che fare in questo periodo fu Miton, mondano disincantato e pessimista, che suscitò l’ammirazione di Pascal.Forse appartiene al periodo mondano di Pascal, se è suo, il Discours sur les Passions de l'amour, nel quale troviamo già la distinzione fra esprit géométrique e esprit de finesse, che sarà ripresa nei Pensieri.1) il problema: la concreta esistenza dell'uomoPascal è in qualche modo un antesignano dell'esistenzialismo, cioè di quella impostazione filosofica che si incentra sull'esistenza, vista come qualcosa di non spiegabile da una ragione "puramente logica", a motivo della sua drammaticità.Egli rivendica, contro l'astrattezza di molta filosofia, e in particolare di Cartesio, la centralità dell'uomo concreto nella riflessione filosofica: se Cartesio cerca un sapere che consenta un potere dell'umana collettività sul mondo fisico, a Pascal interessa un sapere che illumini il senso ultimo dell'esistenza personale.In tale senso egli contrappone conoscenza delle cose (esterne), ossia sapere scientifico o astrattamente speculativo, a conoscenza di sé, del proprio concreto e personale destino (che egli chiama anche, nei passi sotto citati, "morale", "science des meures"): "La scienza delle cose esterne non mi consolerà dell'ignoranza della morale, nei tempi di afflizione; ma la scienza dei costumi mi consolerà sempre dell'ignoranza delle cose esterne." Pensieri, [67]"L'uomo ha anche meno studiosi della geometria. Ed è solo perché non si sa studiare l'uomo che si cerca il resto", Pensieri[144]. Egli insomma applica alla situazione della filosofia (del suo tempo, ma non solo) la grande e decisiva domanda di Gesù: "Che serve all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde o rovina sé stesso?"E l'uomo concreto non è qualcosa di chiaro e distinto, come pensava Cartesio, non è esauribile dall'intelligenza raziocinante, ma è mistero a sé stesso, è una realtà complessa e contraddittoria. Pascal avverte molto la dimensione della indicibiltà dell’uomo; mentre per Cartesio la "res extensa" e la "res cogitans" esauriscono l’essere umano, per Pascal questo è sempre eccedente, è mistero. Consapevole che l’uomo è un atomo sperduto nell’universo, con profonda sensibilità, egli coglie la sproporzione fra la creatura e la realtà circostante: "L’uomo contempli dunque tutta la natura nella sua sublime e piena maestà (...). Tornato alla considerazione di sé, l’uomo esamini ciò che egli è rispetto a ciò che esiste; si consideri come sperduto in questo remoto angolo della natura, e da queste piccole celle dove si trova rinchiuso, voglio dire l’universo, impari a stimare la terra, i regni, le città e se stesso nel loro giusto valore. Che cos’è un uomo nell’infinito?".(fr. 72)E ancora: "Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita nell’eternità che precede e che segue il piccolo spazio che occupo e che vedo inabissato nell’ infinita immensità degli spazi che m’ignorano, mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non c’è ragione che sia qui piuttosto che là, adesso piuttosto che allora. Chi mi ci ha messo? Per comando e per opera di chi mi sono destinati questo luogo e questo tempo?"(fr. 205) 2) gli strumenti con affrontare il problemaPascal sottolinea l'insufficienza di una pura ragione filosofica, quale quella cartesiana: la certezza che essa ci può dare su Dio e l'anima è una certezza astratta, fredda, incapace di reggere il peso della esistenza reale, con il suo urgere drammatico, contrappuntato dal male e dal dubbio."L'uomo non è che un essere pieno di errore: di errore naturale e ineliminabile senza la grazia. Tutto lo inganna: questi due principi di verità, la ragione e i sensi (...) si ingannano reciprocamente" (Pensieri)E' solo il cuore che può fornire la certezza adeguata all'uomo concreto che noi siamo. Il cuore, ovvero, l'esprit de finesse, cioè la capacità di intuire, senza pretendere lo stesso tipo di dimostrabilità matematica, che possiamo pretendere quando ci rivolgiamo al mondo fisico, indagandolo scientificamente.3) l'uomo come paradossoSecondo P. siamo una realtà paradossale: vi sono infatti in noi aspetti fortemente contrastanti. Da un lato una dimensione di grandezza e dall'altro una di miseria.Questa dimensione paradossale costituisce un problema e rende la vita drammatica. Ma vediamo più in dettaglio come Pascal descrive con termini netti ed incisivi la condizione umana, la sua problematicità e l’apparente contraddizione: “Descrizione dell’uomo: dipendenza, desiderio d’indipendenza, bisogno”.(fr. 126). “Condizione dell’uomo: incostanza, noia, inquietudine”.(fr. 127). Gli uomini non sopportano rimanere tranquilli, a riposo, perché sentirebbero emergere dal profondo di se stessi quell’inquietudine e quel vuoto esistenziali che nascono dalla consapevolezza della propria piccolezza e dell’incapacità di risolvere il bisogno più vero dell’anima. “Nulla è tanto insopportabile per l’uomo quanto lo stare in riposo completo, senza passioni, senza preoccupazioni, senza svaghi, senza applicazione. Allora sente il suo nulla, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. Immediatamente dal fondo della sua anima verranno fuori la noia, la tetraggine, la tristezza, l’affanno, il dispetto, la disperazione.” (fr. 131). E’ nel riposo, dunque, che diventa sensibile il significato della nostra condizione, debole, mortale, dipendente. Il nostro desiderio d’indipendenza crea il bisogno. “Rendiamoci dunque conto delle nostre possibilità: noi siamo qualcosa, ma non siamo tutto; quel tanto di essere che possediamo ci nasconde la vista dell’infinito. [...] Questa è la nostra vera condizione, la quale ci rende incapaci di sapere con certezza e di ignorare assolutamente. Noi navighiamo in un vasto mare, sempre incerti ed instabili, sballottati da un capo all’altro. Qualunque scoglio a cui pensiamo di attaccarci e restare saldi, viene meno e ci abbandona e, se l’inseguiamo, sguscia alla nostra presa, ci scivola di mano e fugge in una fuga eterna. Per noi nulla si ferma. Questa è la nostra naturale condizione, che tuttavia è la più contraria alla nostra inclinazione: desideriamo ardentemente trovare un assetto stabile e una base ultima per edificarvi una torre che si levi fino all’infinito, ma ogni nostro fondamento si squarcia e la terra s’apre in abissi.” (fr. 72). Questa è la condizione umana: l’uomo non è un essere instabile ed incerto; “non è né angelo né bestia”.(fr. 358). D’altra parte l’uomo non può essere definito dal suo limite, dalla sua contraddizione, poiché egli stesso ha coscienza della propria miseria: “La grandezza dell’uomo è grande in questo: che si riconosce miserabile. Un albero non sa di essere miserabile. Dunque essere miserabile equivale a conoscersi miserabile; ma essere grande equivale a conoscere di essere miserabile.” (fr. 397). La grandezza e la miseria dell’uomo sono, dunque, profondamente connesse l’una all’altra; non è possibile slegarle, poiché ciò equivarrebbe ad una riduzione dell'io umano. Infatti è: “pericoloso mostrare troppo all’uomo quanto è simile alla bestia, senza mostrargli la sua grandezza. Ed è ancora pericoloso lasciargli ignorare l’una e l’altra. Ma è utilissimo prospettargli l’uno e l’altra.”(fr. 418). Pascal vuol dirci che l’uomo non deve credere di essere una bestia, ma neppure deve avere la presunzione di ritenersi un angelo. Proprio per questo: “se si esalta, l’abbasso; se s’abbassa, lo esalto; lo contraddico sempre fino a che comprende che è un mostro incomprensibile”.(fr. 420) Pascal sa che gli uomini, basandosi solo sulle proprie forze, potranno solamente arrivare alla consapevolezza della propria incomprensibilità, ma non a trovare il senso vero e ultimo dell’umana esistenza.L’uomo è, dunque, consapevole del suo stato e si riconosce infelice, ma questa sua infelicità è una prova della sua grandezza; bisogna quindi ammettere che le sue miserie sono quelle di un gran signore, “miserie di un re spodestato”. (fr. 398). Nel famosissimo fr. 347, si afferma che la grandezza dell’uomo è nel pensiero: “L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. E’ con questo che dobbiamo nobilitarci e non già con lo spazio e il tempo che potremmo riempire. Studiamoci dunque di pensare bene: questo è il principio della morale” (fr. 347). E’ il pensiero a rendere l’essere umano diverso da tutte le altre creature che non sanno di esistere. Tutto l’universo non può realizzare una sola azione dell’io umano, poiché qualsiasi atto posto dall’io è di un ordine infinitamente superiore alla materia del cosmo. L’uomo è l’unico punto nell’infinito che può pensare ed avere coscienza di sé e della realtà. Bisogna riconoscere come acutamente Pascal colga, sia a livello intellettivo che esistenziale, il senso profondo del Mistero. Il dramma che è la nostra vita può essere a) fuggito, o b) affrontato in modo parziale e riduttivo, oppure può essere c) affrontato in modo adeguato. 3a) la fuga dal dramma: il divertissementGli esseri umani cercano di sfuggire al dramma e al problema costituito dalla loro stessa esistenza, dalla loro persona rifuggendolo, non pensandoci: si tuffano perciò nel divertimento (divertissement), che non comprende solo lo svago e il gioco, ma qualsiasi attività l'uomo intraprenda, lavoro incluso, che abbia come reale fine non l'interesse positivo che si prova in quella occupazione, ma la distrazione dal pensiero circa il proprio dramma, il proprio destino.“Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici”. (fr. 168). Gli uomini cercano con affanno il piacere, il divertimento, perché non sanno “restare tranquilli in una camera [ ...] e non si cercano le conversazioni e i divertimenti, se non perché non si può restare in casa propria con piacere” (fr. 139). Essi non cercano un godimento tranquillo e pacifico, ma il rumore e il trambusto, la distrazione che distoglie dal pensare seriamente a se stessi. “Noi non cerchiamo né il godimento tranquillo e pacifico che ci lascia pensare alla nostra infelice condizione, né i pericoli della guerra né la preoccupazione delle cariche, ma cerchiamo proprio il trambusto che ci distoglie dal pensarci e ci diverte” (fr. 139). Anche un re non può sfuggire a questa misera condizione umana: se è lasciato senza divertimenti è assalito dalle preoccupazione e dalle incertezze della vita. E proprio per poter essere felice, “il re è circondato da gente che pensa soltanto a divertire il re e a impedirgli di pensare a se stesso. Perché se pensa, quantunque re, è un infelice” (fr. 139). Gli uomini, dunque, non sanno stare soli con se stessi e ricercano il giuoco, la guerra non perché, nel profondo del cuore, desiderano il denaro o la vittoria, ma perché l’occupazione li distrae e impedisce loro di pensare: “questo è tutto quello che gli uomini hanno potuto inventare per diventare felici.” (fr. 139). I filosofi, i quali giudicano il mondo poco ragionevole quando passa tutto il giorno ad inseguire una lepre, non conoscono la vera natura umana e non capiscono che gli uomini amano la caccia e non la preda: “quella lepre non ci garantirebbe dalla visione della morte e delle miserie, ma la caccia, che ce ne distoglie, ci garantisce” (fr. 139). Ma questi stessi uomini che possiedono l’istinto che li porta a cercare il divertimento e l’occupazione, “hanno un altro istinto segreto che è un residuo della grandezza della nostra primitiva natura, il quale fa loro conoscere che la felicità si trova effettivamente nel riposo e non già nel tumulto” (fr. 139). E così sono portati al riposo mediante l’agitazione e ad immaginarsi sempre la soddisfazione che non possiedono, che “arriverà una buona volta”. (fr. 139) D’altra parte nel divertimento non può essere la vera felicità perché esso è fondato sull’illusione. Esso è la più grande delle nostre miserie perché è uno sfuggire il paradosso che è l’uomo reale, la contraddizione che questi non sa risolvere; è fondamentalmente una fuga dalla consapevolezza dell’umana miseria. Se il divertimento aiuta a sfuggire alla noia, esso però ci allontana dalla nostra realtà e ci conduce, senza che ce ne accorgiamo, alla perdizione di noi stessi. “L’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore delle nostre miserie. Perché è esso che principalmente ci impedisce di pensare a noi e ci porta inavvertitamente alla perdizione. Senza di esso noi saremmo annoiati, e questa noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il divertimento ci divaga e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte”.(fr. 171). Von Balthasar osserva che Pascal passa in rassegna le varie forme di divertimento, anche quelle che più ci sembrano naturali poiché in esse viene riconosciuta “sempre la fuga dall’essere con se stessi, cioè dal rientro in Dio, dal “redire ad cor”. Dallo sport alle varie forme di intrattenimenti sociali fino al lavoro scientifico, Pascal vede tutto un sol traffico dell’uomo sotto la legge di questa segreta, pazza, fuga. Vivere nel futuro o nel passato solo per sottrarsi al sì dell’ora presente” (Balthasar, p. 196). “Non stiamo mai nei limiti del tempo presente. Anticipiamo l’avvenire come se fosse troppo lento ad arrivare, quasi per affrettare il suo corso; oppure rievochiamo il passato per fermarlo; quasi troppo precipitoso; siamo così imprudenti da scorazzare in tempi che non ci appartengono e da non pensare all’unico tempo che ci appartiene; siamo così fatui da sognare i tempi che non esistono più e da fuggire senza riflettervi, il solo che sussiste. Perché, di solito, il presente ci tormenta. […] Per questo, non viviamo mai, ma speriamo di vivere; e, disponendoci sempre a essere felici, è inevitabile che non lo diverremo giammai.” (fr. 172) 3b) le false soluzioniI più pensosi tra gli uomini però hanno affrontato in qualche modo il problema, ma chi si è fermato alla sola filosofia ha comunque ridotto il problema, cercando di non vedere il paradosso e limitandosi a considerare soltanto uno dei due lati dell'uomo: o la sola grandezza (è l'errore degli stoici) o la sola miseria (è l'errore degli scettici).Pascal evidenzia il vano tentativo degli stoici (e in particolare di Epitteto) di trovare una soluzione al problema dell’uomo: “quei grandi sforzi interiori, a cui l’anima arriva talvolta, sono cose in cui essa non dura; vi si slancia soltanto, non come sul trono, per sempre, ma per un momento solo”. (fr. 351) Se la filosofia di Epitteto conduce quindi alla superbia, quella di Montaigne ne corregge gli eccessi razionalistici, coinvolgendo “ogni cosa in un dubbio universale e così generale che questo dubbio coinvolge se stesso, e cioè il fatto stesso che egli dubiti, e dubitando anche di quest’ultima proposizione, la sua incertezza si avvolge su se stessa in un circolo perpetuo e senza soste.”(Pascal, Pensieri). In fondo Epitteto e Montaigne indicano due modi astratti di guardare alla condizione umana: l’uno considerando la grandezza dell’uomo la identifica con l’autosufficienza, l’altro cogliendo la miseria umana la chiude nei confini dell’insignificanza; l’uno fa dell’uomo un Dio, l’altro lo degrada a livello delle bestie. Ecco cosa dicono gli stoici: “Alzate gli occhi al cielo [...] mirate colui al quale rassomigliate e che vi ha creato perché lo adoriate. Voi potete rendervi simile a lui; la saggezza li renderà uguali a lui se volete seguirla”. (fr. 431). E gli scettici: “Abbassate i vostri occhi verso la terra, miserabili vermi che siete, e mirate le bestie di cui siete compagni” (fr. 431). Ma entrambi non hanno trovato la via giusta. Infatti “Considerando gli uni la natura come incorrotta e gli altri come inguaribile, non hanno potuto evitare l’orgoglio o la pigrizia, che sono le due sorgenti di tutti i vizi; poiché non possono fare altro che o abbandonarvisi per viltà o uscirne per orgoglio. Infatti, se conoscevano l’eccellenza dell’uomo, ne ignoravano la corruzione, cosicché evitavano bensì la pigrizia ma si perdevano nella superbia; e se riconoscevano l’infermità della natura, ne ignoravano la dignità, di modo che potevano evitare la vanità ma solo per precipitare nella disperazione”.(fr.435) Così nello stoicismo e nello scetticismo del suo tempo Pascal incontra elementi stimolanti che lo inducono a riflettere sul problema dell’uomo, ma non trova la soluzione. Anzi, più si riflette sulla situazione della realtà umana e più ne aumenta la conoscenza, “a mano a mano che in noi cresce la luce, scopriamo maggiore grandezza e maggiore bassezza nell’uomo.”(fr. 443).Osserva Von Balthasar che “per Pascal la conclusione della via filosofica consiste nel lasciare al loro posto Epitteto e Montaigne confrontati tra loro, l’uno che pretende la grandezza dall’uomo e l’altro che dimostra la grandezza che non ha, e nel lasciarli precisamente come contrapposti che non si integrano, per esempio, nell’immagine di una maestà armonica o tragico-eroica dell’uomo, nel lasciarli cioè come contraddizioni i cui estremi si distruggono espressamente a vicenda invece di integrarsi.” (Von Balthasar, Gloria, Stili laicali, tr. it. Jaca Book, p. 197). 3c) la vera soluzione: la fede cristiana (peccato originale e vocazione all'Infinito)Il Cristianesimo si presenta come qualcosa che supera la razionalità filosofica, ma che risulta essere l'unica spiegazione della realtà, e dell'uomo, in grado di risolvere tutti i problemi che quella ha posto, in particolare la condizione paradossale prima evidenziata, di intreccio tra grandezza e miseria.Perché? Perché con i suoi dogmi spiega l'uomo, non censurando nessun fattore della sua esperienza: spiega il male e la miseria dell'esistenza umana con il dogma del peccato originale; e spiega la grandezza dell'uomo con il suo essere creato a immagine e somiglianza di Dio e redento da Cristo, che lo chiama, per grazia e mediante il Suo sacrificio redentore, a partecipare alla vita di Dio.il peccato originaleL'uomo è proteso verso la verità, ma non riesce ad afferrarla: “Desideriamo la verità, e in noi non troviamo che incertezza”, (fr. 437); aspira prepotentemente alla felicità, a trovare una risposta esauriente al significato della vita, ma deve amaramente constatare che “siamo incapaci di non desiderare la felicità e la verità e siamo incapaci della certezza e della felicità” (ivi 437). Il conflitto tra i desideri dell’uomo e la sua realtà, fra la grandezza e la miseria, inducono a riconoscere che la natura umana è una natura decaduta: “Questo desiderio ci viene lasciato sia in punizione sia per farci sentire da che punto siamo caduti” (ivi fr. 437). “L’uomo avverte nella sua condizione, in alcuni dei caratteri della sua esistenza, dei pesanti limiti, la presenza di qualcosa che non dovrebbe esserci, o l’assenza di qualcosa che dovrebbe esserci; non potrebbe riconoscere tutto questo, se non avesse in sé l’idea di un valore - o di un complesso, o di un’unità di valori - e l’aspirazione ad esso ( o ad essi). La coscienza della miseria nasce cioè nell’uomo insieme con l’idea di una grandezza oggi non attuale ma alla quale l’uomo tende.” (Bausola). Anche Von Balthasar mette in evidenza che: “L’uomo non è nel suo stato congenito; è in una situazione esistenziale di estraneazione. Qui, in questo rapporto verticale dell’esistenza superiore congenita e dell’attuale esistenza inferiore innaturale, sta il primo accesso verso una leggibilità della sua figura.”. (Balthasar)“La grandezza dell’uomo è così evidente che si deduce dalla sua miseria. Infatti ciò che è natura negli animali lo chiamiamo miseria nell’uomo; dal che deduciamo che essendo oggi la sua natura simile a quella degli animali, egli è decaduto da una migliore natura che un tempo gli era proprio.” (fr. 409) A tal punto, continua Pascal, “questa duplicità dell’uomo è cosi evidente che alcuni hanno creduto persino che abbiamo due anime.” (fr. 417) “Umiliati, ragione, impotente; taci natura imbecille, impara che l’uomo sorpassa infinitamente l’uomo, e impara dal tuo Signore la tua vera condizione che ignori. Ascolta Dio.” (fr. 434) Noi non possiamo concepire lo stato glorioso di Adamo dall’istante stesso della sua creazione al momento della sua caduta, né come il suo peccato possa trasmettersi in noi, ma ciò che ci è utile sapere per uscire dalla contraddizione esistenziale è che “siamo miserabili, corrotti, separati da Dio, ma riscattati da Gesù Cristo.” (fr. 560) Se soltanto la primitiva caduta umana può spiegare la miseria dell’uomo, solo l’avvenimento della Redenzione, può soddisfarne l’anelito alla felicità e alla verità, quei desideri naturali del suo cuore, tracce indelebili dell’originale grandezza, “perché gli uomini sono nel medesimo tempo indegni di Dio e capaci di Dio: indegni per la loro corruzione, capaci per la loro primitiva natura.” (fr. 557). il CristianesimoNon si potrebbe spiegare la grandezza dell'uomo se non ammettendo quello che dice il dogma cristiano: l'uomo è stato creato per un Destino di gloria, per qualcosa di grande; nel suo cuore brucia un anelito di felicità perfetta, che non si potrebbe spiegare in un semplice ammasso di materia, al confine col nulla.Certo, questa argomentazione non è una vera prova razionale della verità del Cristianesimo, ma evidenzia come il Cristianesimo sia l'unica spiegazione che non trascuri nessun fattore della realtà, e come, voltando le spalle ad esso, resta solo una alternativa: l'assurdo. “Le prove della nostra religione non sono tali da potersi dire assolutamente convincenti. Ma sono tali che non si può affermare che il crederci significa mancare di ragione. C’è in essi evidenza e oscurità per illuminare gli uni e confondere gli altri. Ma l’evidenza è tale che sorpassa, o almeno uguaglia, l’evidenza del contrario; cosicché non è la ragione a determinarci a non seguirla, ma soltanto la concupiscenza e la malizia del cuore. In questo modo c’è in essa abbastanza per convincere: affinché sia chiaro che in quelli che la seguono è la grazia e non la ragione a spingerli a seguirla, mentre in quelli che la fuggono è la concupiscenza e non la ragione a farla fuggire.” (fr. 564) 4) DioPascal dedica, ovviamente, delle riflessioni alla questione della ragionevolezza dell'esistenza di Dio. Da un lato egli non contesta il valore intrinseco, logico, delle prove tradizionali della Sua esistenza. Tuttavia tali prove non hanno il potere di convincere esistenzialmente l'uomo. Convincono la testa, l'intelligenza, ma non il cuore, non hanno la forza di cambiare la vita, con il suo urgere drammatico, intessuto di contraddizioni e di limiti.Le prove metafisiche di Dio sono tanto lontane dal modo di ragionare degli uomini e tanto complicate, che colpiscono poco; e quando anche servissero per alcuni, servirebbero solo nel momento che essi vedono la dimostrazione, ma un'ora dopo temerebbero d'essersi ingannati.L'unica dimostrazione che Pascal propone è, se così la si può chiamare, l'argomento della scommessa, il pari: nella incertezza se Dio esista o meno, è giusto puntare su ciò che più ci conviene; ovvero ci conviene puntare sul fatto che Dio esista, in quanto se tale ipotesi si rivelasse vera avremmo "vinto tutto", mentre se anche si rivelasse falsa non avremmo "perso niente" (dato che la vita non sarebbe allora che un niente sospeso nel niente)."Poiché scegliere bisogna, vediamo ciò che vi interessa di meno. Voi avete due cose da perdere: il vero e il bene; e due cose da impegnare nel gioco: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha due cose da fuggire: l'errore e la miseria. (...) Valutiamo questi due casi: se guadagnate, voi guadagnate tutto; se perdete, non perdete niente. Scommettete dunque che egli esiste, senza esitare." Come si vede non si tratta di una vera prova, ma piuttosto di un argomento che evidenzia come valga la pena cercare con tutte le proprie forze se Dio sia, dato che la alternativa a Lui è il vuoto, il nulla.Dio come Lo presenta Pascal è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, non il Dio freddo geometrico dei filosofi: cioè è un Dio vivo, un Tu esistente, che interpella perciò tutta la nostra persona e non può non com-muovere tutto il nostro essere, pensiero, cuore ed emozioni.E' anche un Deus abscobnditus, un Dio nascosto: ma non, come spiega bene Guardini, perché sia intrinsecamente oscuro, quanto piuttosto per via del peccato che è in noi, e che causa in noi un appannamento, un diaframma nei confronti della Sua sfolgorante Luce.Per questo per ammettere la Sua esistenza non occorre "aumentare il numero delle prove", ma "diminuire" le "passioni" (fr. 233): lottare contro il male, il peccato (le "passioni") infatti è rimuovere il fattore che si frappone come un diaframma tra noi e Dio. Se togliamo il motivo per cui Lo neghiamo, ossia la nostra volontà ribelle e disobbediente (e perciò incline al male), avremo rimosso il principale impedimento, affettivo piuttosto che conoscitivo, al riconoscimento del nostro Creatore. Il tema è tipicamente agostiniano, o meglio, più generalmente, tradizionale: la vita dell'intelligenza non è separabile dalla vita personale nella sua totalità, per cui essere nella verità è il modo migliore per pensare nella verità.5) i tre ordiniNon vi sono solo due livelli di realtà, come pensava, più o meno subdolamente, molto razionalismo contemporaneo a Pascal (ad esempio Cartesio): non vi sono solo il livello corporeo, quello della res extensa, e il livello spirituale, quello della res cogitans. Vi è un terzo livello, separato dal secondo da un abisso più profondo di quello che lo divideva dal primo: è il livello della carità, ossia della grazia, soprannaturale, con cui l'uomo è assimilato all'Infinito Mistero di Dio.Servirebbe ben poco far vincere lo spirito sul corpo: servirebbe solo a insuperbire, cioè a dannarsi. Il punto non è: essere spirituali, far vincere la ragione sull'istinto, la legge sulla carne. Fin lì potrebbe arrivare anche un filosofo pagano o, diremmo oggi, un asceta orientale. Il punto è aprirsi a una misura infinita, quella della carità appunto, per cui aderiamo all'Infinito e diventiamo capaci, per sua grazia, di amare e perdonare senza limite.La dottrina pascaliana dei tre ordini sottolinea appunto questa irriducibilità della carità allo spirito, o a un'etica puramente naturale. Quello a cui Cristo chiama l'uomo è un compito che trascende le capacità e i limiti della pura natura, e pur senza cancellarli dilata realmente l'uomo al "senza limiti". Come i Santi testimoniano in modo più evidente, ma come ogni cristiano almeno un po' sperimenta nella sua esperienza. (tratto da Culturanuova.net)

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Appunti di filosofia su Pascal

Appunti di filosofia su Pascal
Pascal
Le meraviglie del creato e tutto ciò che appartiene al nostro universo non provano per tutti l’esistenza di Dio, ma solo a chi già crede allora la natura appare come opera divina. Quindi razionalmente, l’esistenza di un creatore non è certa e chiara. Le prove metafisiche di Dio fanno giungere a un Dio puramente astratto, qualcosa di inutile e lontano dall’uomo.

La filosofia non riesce a spiegare la condizione dell’uomo nel mondo. L’uomo è compreso tra il nulla e il tutto, è un misto di essere e non essere; in relazione al sapere, l’uomo conosce e non conosce, si trova in una via di mezzo tra l’ignoranza assoluta e la scienza assoluta. Tutte le nostre capacità sono limitate da due estremi, ma i nostri sensi non percepiscono niente di estremo. L’uomo desidera la verità e la felicità, ma si trova impossibilitato a raggiungerle (desiderio frustrato). In lui vi è la vocazione naturale verso un ordine superiore di essere, e la stessa coscienza della propria miseria è già segno di grandezza. L’uomo si trova, dunque, in una situazione paradossale, nel quale si intrecciano miseria e grandezza. Questa paradossalità, secondo Pascal, non va negata, come hanno fatto i filosofi, ma affermata e difesa.

Secondo Pascal, l’unica vera filosofia è una sorta di meta-filosofia che unisce ragione e religione. Fra tutte le religioni, l’unica vera è quella cristiana, che riesce a spiegare la specifica condizione dell’uomo, con la dottrina dell “caduta”. L’uomo, infatti, non è come dovrebbe essere, quindi risulta privo di qualcosa che un giorno possedeva, non riesce ad adattarsi all’idea di non possederli più e quindi è tormentato dalla nostalgia.
Poiché l’esistenza di Dio non si può dimostrare, Pascal ritiene conveniente scommettere sull’esistenza di Dio: l’uomo ha questo interesse perché in caso di perdita perderà solo beni finiti, mentre in caso di vincita guadagnerà il bene infinito che è Dio.

Il senso della vita è il problema più importante e decisivo che l’uomo si deve porre.

Con il termine divertissement, Pascal intende l’oblio e lo stordimento di se nelle occupazioni e negli intrattenimenti sociali, quindi un modo per allontanarsi dal problema del senso della vita, della consapevolezza della nostra miseria e dai supremi interrogativi sulla vita e sulla morte. Pascal è convinto che la scienza abbia dei limiti: il primo è l’esperienza che circoscrive i poteri della ragione; il secondo è l’indimostrabilità dei primi principi; il terzo è la sua impotenza nei confronti dei problemi esistenziali.

Il cuore è quella comprensione istintiva di cui l’uomo si serve per cogliere i primi principi e le dimostrazioni e per captare gli aspetti più profondi dell’esistere. La contrapposizione tra ragione e cuore viene espressa dalla celebre coppia di spirito di geometria e spirito di finezza. Lo spirito di geometria è la ragione scientifica che ha come oggetto gli enti astratti della matematica e procede dimostrativamente; lo spirito di finezza ha per oggetto l’uomo e si fonda sul cuore, sul sentimento e sull’intuito.

http://www.webappunti.com/appunti-superiori/filosofia/appunti-di-filosofia-su-pascal.html

CARTESIO E PASCAL

CARTESIO E PASCAL



Il tema della preghiera diventa particolarmente rilevante nella modernità, quando si consuma la scissione tra la filosofia e la religione: è in quel momento, infatti, che la preghiera comincia ad essere indagata dalla filosofia in quanto tale.

Benché non tematizzato, il problema è già presente in Cartesio, il quale è insieme un filosofo e un sincero credente, un credente quasi ingenuo, se si tiene presente che fece il voto di andare al santuario di Loreto per aver scoperto il metodo, quel metodo da cui scaturirà l’ateismo moderno. Con Cartesio e col suo cogito, la ragione acquista un’autonomia che è insieme gnoseologica ed ontologica. È vero che Cartesio dimostra razionalmente l’esistenza di Dio,in modo geometrizzante, ma lo fa per ricercare un punto stabile sul quale fondare la certezza del cogito: egli cerca un Dio che abbia una valenza sistematica e pertanto, come dirà Pascal, il suo è “il Dio dei filosofi”. Cartesio tematizza la finitezza per giungere all’infinito, ma ciò è compiuto soltanto in termini speculativi e logici. Ma – chiediamoci – Dio cartesiano è un Dio che si può pregare e col quale relazionarsi come con una persona? Già Pascal rispondeva in modo negativo a tale domanda: e proprio la polarità tra Cartesio e Pascal è la scaturigine della modernità e delle due strade diverse che essa ha percorso. Tale alternativa sta tutta nel modo in cui è diversamente giocato il rapporto tra il finito e l’infinito. Anche Pascal tematizza la finitezza dell’uomo, ma lo fa non in termini logici, bensì con un gesto esistenziale. Egli vuole tenere insieme il finito e l’infinito, anche a costo di sferrare un attacco alla ragione: ai suoi occhi, la finitezza che Cartesio scruta è una finzione logica che è clamorosamente smentita dal principio del cogito, col quale la finitezza si espande a dismisura. In Pascal, la finitezza è spinta così in là da investire la ragione stessa e da mettere sotto scacco la pretesa autonomia del cogito. La necessità della fede, in Pascal, non è un’istanza antifilosofica, ma è piuttosto l’approdo di un diverso inizio filosofico, è l’altra faccia della modernità: una faccia che non assolutizza la ragione ma ne predica i limiti e scorge in ciò un possibile rapporto con la trascendenza.

Da questa polarità tra Cartesio e Pascal non si esce: e la storia del pensiero moderno è la storia di questa polarità, anche se nel razionalismo moderno tenderà a prevalere la linea cartesiana.

I biografi di Cartesio attestano che egli pregava, benché il Dio da lui scoperto in sede filosofica non fosse certo tale da essere pregato: è una scissione così radicale quella tra la coscienza di Cartesio e la sua filosofia, che egli non può neppure avvertirla; ma la avverte Pascal, che proprio in forza di ciò conduce la filosofia a fare un passo indietro, a togliersi dallo spazio che deve essere quello della fede. Pascal si impegna in tutti i modi per liberarsi dal “Dio dei filosofi” e dalle prove che della sua esistenza i filosofi hanno fornito, le quali, per quanto siano logicamente impeccabili, approdano a un essere supremo e necessario che non è però il “Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe”. Questa delimitazione pascaliana della filosofia a favore della fede è naturalmente a sua volta un atto filosofico. Tuttavia, in questa polarità si individua una non perfetta simmetria, perché, a differenza di Cartesio, Pascal conosce quella scissione, non la elude, ma decide esistenzialmente per una delle due alternative. Così, Cartesio prega come uomo ma non come filosofo; invece, Pascal, per poter pregare come uomo, deve condurre la filosofia alla coscienza dei propri limiti. Entrambi assumono l’estraneità tra filosofia e preghiera, ma in modi diversi: infatti, ciò si manifesta in Cartesio nell’impossibilità di pregare il Dio scoperto con la ragione, in Pascal nell’esplicito rifiuto di quel Dio in nome di un altro Dio irraggiungibile dalla ragione. È all’inizio della filosofia moderna che si afferma nel pensiero umano quel principio di immanenza inaugurato dal cogito, implicato dal “Dio dei filosofi” e che è già ateismo in nuce. È un Dio che nulla ha da offrire all’uomo e col quale non ha senso cercare di instaurare un rapporto: tale Dio non solo è compatibile con una sorta di “ateismo strisciante”, ma forse lo richiede. È precisamente questo che toglie alla preghiera ogni senso e ogni fondamento: per il pensiero che si pone su questa linea, la preghiera potrebbe rappresentare l’abdicazione nei confronti della centralità dell’uomo, ovvero l’abdicazione nei confronti della libertà umana. Che altro è il cogito cartesiano se non un netto rifiuto della possibilità che il proprio fondamento sia esterno? Con Cartesio, il soggetto assume piena autonomia e dunque non ha più bisogno di cercare un fondamento che sia altro da sé. Nelle correnti successive (deismo, empirismo, ecc) sarà questa la linea vincente, che porterà sempre con sé – implicita o tematizzata – una negazione del significato della preghiera o, come nel caso di Spinosa, una sua accettazione al livello ingenuo “delle donne e dei bambini”. Nel caso opposto dell’Idealismo, è la coscienza stessa che si fa assoluta e che dunque non cerca più qualcosa fuori di sé: sicché anche l’Idealismo è figlio del cogito cartesiano.




http://www.filosofico.net/preghierafilosofia7.htm

LA GEOMETRIA DI CARTESIO-DA WIKIPEDIA

La geometria
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La geometria (La Géométrie) fu pubblicata da René Descartes nel 1637 come una delle tre appendici al Discorso sul metodo. Le altre due erano La Diottrica (La dioptrique) e Le Meteore (Les Météores). Descartes non ha mai chiarito se i tre saggi (appendici) fossero esempi di applicazione del metodo oppure se il metodo fosse una introduzione ad essi.


L'opera in particolare discusse la rappresentazione di un punto di un piano mediante una coppia di numeri reali e la rappresentazione di curva per mezzo di un'equazione. In tal modo i problemi geometrici possono venire tradotti in problemi algebrici e risolti con le regole dell’algebra. In effetti La Géométrie ebbe grande influenza sullo sviluppo del sistema di coordinate cartesiane.

Spesso “La Géométrie” viene vista unicamente come applicazione dell’algebra alla geometria, ma lo scopo del suo metodo era duplice: da un lato, di liberare la geometria dal ricorso alle figure, di evitare la dipendenza dalle differenze inessenziali tra figura e figura per raggiungere risultati di più ampia generalità; dall’altro di dare un significato alle operazioni algebriche per mezzo di un’interpretazione geometrica.

Il saggio si presenta con una struttura non unitaria e poco omogenea, ma il suo contenuto, nel suo insieme, sia per le soluzioni proposte che per il linguaggio adottato, è di certo il più avanzato e moderno della prima metà del 1600. Il formalismo algebrico utilizzato è molto simile a quello odierno; in particolare si ha l’uso cartesiano delle prime lettere dell’alfabeto per indicare i parametri e delle ultime per indicare le incognite. Tuttavia, mentre noi concepiamo i parametri e le incognite come numeri, Descartes dava loro un’interpretazione in termini di segmenti.

La Géométrie è divisa in tre libri:

I. I problemi che si possono costruire solo con cerchi e linee rette

II. Sulla natura delle linee curve

III. La costruzione dei problemi solidi o più che solidi.

Nel I libro, Descartes, dopo aver posto le basi del metodo delle coordinate e aver dato un’interpretazione delle operazioni algebriche in termini di segmenti, fornisce dettagliate istruzioni sul modo di risolvere equazioni di secondo grado per via geometrica, dando una interpretazione in tal senso anche per la loro soluzione. Enuncia il problema di Pappo che nessuno nell’antichità era stato in grado di risolvere compiutamente e ne inizia la soluzione.

Il II libro è forse quello che contiene i risultati più importanti e più vicini alla concezione moderna della geometria analitica. Descartes espone la scoperta che le equazioni indeterminate in due incognite corrispondono a luoghi geometrici. Distingue con cura le “curve geometriche”, che possono essere rappresentate da equazioni algebriche, come le coniche, la cissoide e la concoide, dalle “curve meccaniche”, come la spirale e la quadratice che non possono rappresentarsi con tale tipo di equazioni. Trova la soluzione al problema di Pappo con 4 rette arrivando a scrivere l'equazione generale di una conica passante per l'origine e specificando le condizioni cui devono soddisfare i coefficienti affinché la conica sia una retta, una parabola, un'ellisse o un'iperbole; inoltre analizza il caso più semplice del problema di Pappo con 5 rette.
Fra i risultati più importanti ottenuti da Descartes e contenuti nel II libro dell’opera, merita una particolare menzione la determinazione generale della normale ad una qualsiasi curva algebrica piana in un suo generico punto e la conseguente determinazione della tangente. Per trovare la normale ad una curva algebrica in un determinato punto P di una curva algebrica, Descartes dice di prendere un punto variabile P’ sulla curva stessa e di determinare l’equazione della circonferenza avente per centro la coordinata sull’asse delle ascisse del punto e passante per i punti P e P’. Ora, annullando il discriminante dell’equazione che determina l’intersezione della circonferenza con la curva, si trova il centro della circonferenza per il quale P’ coincide con P. Trovato il centro, si trovano poi agevolmente la normale e la tangente alla curva nel punto considerato. Il II libro potrebbe concludersi con questa trattazione che mostra il procedimento generale di Descartes per la costruzione di tutti i problemi: intersezione di una circonferenza e una retta per i problemi piani, di una circonferenza e una parabola per i problemi che nel suo linguaggio sono detti solidi, di una circonferenza e di una curva di grado maggiore e così di seguito. L'autore invece, in omaggio all’orientamento preminentemente utilitaristico e tecnico del suo sapere, preferisce concludere il libro con la trattazione sugli ovali, ossia sulle forme che devono assumere i corpi trasparenti per essere utili al miglioramento della vista.

Il III libro tratta della soluzione delle equazioni di grado superiore al secondo mediante intersezioni di curve. Descartes, partendo dal presupposto che bisogna sapere se l’equazione sia riducibile o meno, insegna come passare da un grado superiore a uno inferiore dell’equazione quando sia nota una radice e che possono darsi tante radici positive quante sono le variazioni di segno nel primo membro e tante negative quante volte i segni + e – si susseguono (regola dei segni di Cartesio). Dà pure alcune regole che riguardano l’eliminazione nell’equazione del secondo termine o la reintroduzione di un termine mancante. Posto ciò, affronta i problemi le cui soluzioni dipendono da equazioni di terzo grado e oltre; per questo, prima si sofferma sulla soluzione delle equazioni di terzo grado e subito dopo su quelle di quarto grado, che risolve riducendone il grado, o altrimenti applicando il metodo dei coefficienti indeterminati che gli consente di ridurre equazioni di quarto grado ad un prodotto di equazioni di secondo grado. A causa di una affrettata generalizzazione, Descartes fu indotto a pensare di aver trovato erroneamente la soluzione di equazioni superiori al quarto.

La Géométrie, pur essendo dedicata interamente alla interazione tra algebra e geometria, è ben lontana dalla geometria analitica in uso oggi. Descartes non fa un uso sistematico di coordinate ortogonali, ma spesso utilizza coordinate oblique; inoltre non fa uso di ascisse negative e non presenta nessuna curva tracciata direttamente a partire dalla sua equazione.

Descartes non fece molto per rendere leggibile l’opera ai suoi contemporanei, sia per la struttura scelta che per i simboli e i calcoli utilizzati; egli era talmente sicuro dell’efficacia del proprio metodo, da scrivere che non si sofferma a «spiegare minutamente» tutte le questioni, solo per lasciare ai posteri la soddisfazione di «apprenderle da sé». Continua poi scrivendo «Ed io spero che i nostri nipoti mi saranno grati, non solo delle cose che io ho spiegato, ma anche di quelle che volontariamente ho omesso, allo scopo di lasciar loro il piacere di inventarle». Si tratta di una oscurità voluta, perché legata ad impostazioni che si ritrovano in tutti gli scritti cartesiani, Discorso compreso; tuttavia questo non toglie a Descartes il grande merito di aver avvicinato due scienze, aritmetica (algebra) e geometria, che un’antica e solida tradizione, fondata su Aristotele, aveva sempre tenuto separate.



http://it.wikipedia.org/wiki/La_Geometria

CARTESIO DA WIKIPEDIA



René Descartes ([ʀəˈne deˈkaʀt]), conosciuto anche con il nome latinizzato di Renatus Cartesius e in italiano come Cartesio (La Haye en Touraine, 31 marzo 1596 – Stoccolma, 11 febbraio 1650) è stato un filosofo e matematico francese, che diede fondamentali contributi a questi due campi del sapere.

Cartesio, ritenuto da molti fondatore della filosofia moderna e padre della matematica moderna, è considerato uno dei più grandi e influenti pensatori nella storia dell'umanità. Con il suo pensiero estese la concezione razionalistica e matematizzante della conoscenza, che era stata propugnata da Francesco Bacone, ma formulata e applicata effettivamente solo da Galilei, a ogni aspetto del sapere, dando vita a quello che oggi è conosciuto con il nome di razionalismo continentale, una posizione filosofica dominante in Europa tra XVII e XVIII secolo.



Cartesio nacque a La Haye, villaggio poi ribattezzato La Haye - Descartes in onore del filosofo, nella regione francese della Touraine, e fu educato presso il collegio gesuita di La Fleche dove studiò dal 1604 al 1612. Dopo il baccalaureato in legge, conseguito nel 1616 presso l'università di Poitiers invece di dedicarsi all'attività forense, nel 1618 intraprese la carriera militare alle dipendenze del principe Maurizio di Nassau. Di stanza a Brema, incontrò il medico Isaac Beeckman con il quale collaborò a diverse ricerche scientifiche. Il breve trattato sulla musica intitolato Compedium Musicae fu offerto da Cartesio a Beeckman come strenna per il nuovo anno, il 1619.

Il 10 novembre del 1619, mentre si trovava in Germania, ebbe un sogno in cui affermò di aver avuto la rivelazione di un nuovo sistema scientifico e matematico, che egli chiamò scientia penitus nova, ovvero scienza completamente nuova (si trattava, in realtà, dell'estensione del metodo matematico-quantitativo agli altri campi del sapere). Nel 1622 rientrò in patria e trascorse gli anni immediatamente successivi tra Parigi e le città culturalmente più all'avanguardia d'Europa. Tra il 1623 ed il 1625 si trova in Italia.

Nel 1628 scrisse le Regulae ad directionem ingenii e si trasferì in Olanda dove rimase fino al 1649, cambiando frequentemente domicilio. Nel 1629 cominciò a lavorare all'opera Il Mondo ma a seguito della condanna del Galilei (1633) abbandonò il proposito di pubblicarla, poiché anch'egli nell'opera sposava in più parti le tesi di Copernico condannate dalla Chiesa. Nel 1635 conobbe la gioia di diventare padre con la nascita della figlia Francine (battezzata il 7 agosto dello stesso anno; la piccola sarebbe morta nel 1640).



Prima edizione de La Geometria
Nel 1637 pubblicò il Discorso sul metodo e i saggi su Drottica, Geometria e Meteore. Nel 1641 diede alle stampe la prima edizione delle Meditazioni metafisiche corredate dalle prime sei Obiezioni e risposte. L'anno successivo (1642) con la seconda edizione delle Meditazioni pubblicò le settime Obiezioni e risposte.

Nel 1643 la filosofia cartesiana venne condannata dall'università di Utrecht, contemporaneamente Cartesio iniziò una lunga corrispondenza con Elisabetta principessa di Boemia. Nel 1644 compose i Principia philosophiae e compì un viaggio in Francia. Nel 1647 la corona di Francia gli riconobbe una pensione. L'anno successivo da una lunga conversazione con Frans Burman nacque il libro omonimo.

Nel 1649 accettò l'invito della regina Cristina di Svezia, sua discepola e desiderosa di approfondire i contenuti della sua filosofia, e si trasferì a Stoccolma. Quello stesso anno dedicò il trattato sulle Passioni dell'anima alla principessa Elisabetta. Il rigido inverno svedese e gli orari in cui Cristina lo costringeva ad uscire di casa per impartirle lezione - prime ore del mattino quando il freddo era più pungente - minarono il suo fisico. Cartesio si spense l'11 febbraio 1650, vittima della polmonite. Le sue spoglie vennero portate in Francia e tumulate a Parigi nella chiesa di S.te Geneviève-du-Mont.

Nel 1667 i suoi libri vennero messi all'Indice dalla Chiesa cattolica. Durante la Rivoluzione francese i suoi resti furono tumulati al Panthéon assieme a quelli degli altri grandi pensatori francesi e il villaggio in cui era nato venne ribattezzato La Haye - Descartes; oggi i suoi resti riposano a Parigi, nella chiesa di Saint-Germain-des-Prés.



Pensiero di Cartesio « Volendo seriamente ricercare la verità delle cose, non si deve scegliere una scienza particolare, infatti esse sono tutte connesse tra loro e dipendenti l'una dall'altra. Si deve piuttosto pensare soltanto ad aumentare il lume naturale della ragione, non per risolvere questa o quella difficoltà di scuola, ma perché in ogni circostanza della vita l'intelletto indichi alla volontà ciò che si debba scegliere; e ben presto ci si meraviglierà di aver fatto progressi di gran lunga maggiori di coloro che si interessano alle cose particolari e di aver ottenuto non soltanto le stesse cose da altri desiderate, ma anche più profonde di quanto essi stessi possano attendersi »
(Cartesio da "Discorso sul metodo")


Considerato il primo pensatore moderno ad avere fornito un quadro filosofico di riferimento per la scienza moderna all'inizio del suo sviluppo, Cartesio ha cercato di individuare l'insieme dei principi fondamentali che possono essere conosciuti con assoluta certezza. Per individuarli si è servito di un metodo chiamato scetticismo metodologico: rifiutare come falsa ogni idea che può essere revocata in dubbio.

La conoscenza sensibile è la prima ad essere messa in mora: non è bene fidarsi di chi ci ha già ingannato e potrà farlo ancora in seguito. Addirittura nel sonno capita di rappresentarsi cose che non esistono come se fossero vere. Perciò bisogna rifiutarsi di credere nei sensi.

La conoscenza matematica solo apparentemente può sfuggire al metodo del dubbio metodico messo in atto da Cartesio. Infatti, benché sembri che non ci possa essere nulla di più sicuro e di più certo, non si può neppure escludere che un "genio maligno", supremamente malvagio e potente, si diverta ad ingannarci ogni volta che effettuiamo un calcolo matematico.

Cartesio, per la sua personale esperienza della verità, ritiene che i pensieri di cui possiamo essere certi sono evidenze primarie alla ragione. Evidente è l'idea chiara e distinta, che si manifesta all'intuito nella sua elementare semplicità e certezza, senza bisogno di dimostrazione. Ne sono esempi i teoremi di geometria euclidea, che sono dedotti in base alla loro stessa evidenza, ma nello stesso tempo verificabili singolarmente in modo analitico, mediante vari passaggi.

Il ragionamento non serve a dimostrare le idee evidenti, ma semplicemente a impararle e memorizzarle; i collegamenti hanno la funzione di aiutare la nostra memoria. Kant rileverà che questo non solo è un metodo opportuno, ma che è l'unico possibile, che le coscienze si formano intorno a un "io penso" che può apprendere soltanto conoscenze che derivino da un unico principio.

Cartesio afferma anche che ognuno ha il suo metodo e che il suo è uno dei metodi possibili. L'importante è darsi un metodo cui sottoporre tutte le verità e da seguire come regola per tutta la vita; il metodo cartesiano finisce con l'essere un imperativo categorico il cui contenuto metodico varia a seconda delle circostanze, ma anche della persona (cosa che l'imperativo categorico non ammette). Il metodo cartesiano quindi non è altro che un criterio di orientamento unico e semplice che all'interno di ogni campo teoretico e pratico aiuti l'uomo, e che abbia come ultimo fine il vantaggio dell'uomo nel mondo.





Cartesio e il dubbio (LA)
« Dubium sapientiae initium » (IT)
« Il dubbio è l'origine della saggezza »
(René Descartes, Meditationes de prima philosophia)


Che cosa possiamo sperare di conoscere con certezza a questo punto? Proprio quando sembra impossibile individuare qualcosa che possa essere conosciuto con certezza, Descartes si rende conto che qualunque cosa possa fare quel genio maligno non potrà mai far sì che io, che dubito di essere ingannato da lui, non esista: la sua azione dell'ingannare si rivolge nei confronti di un esistente che subisce l'inganno e che dubita di essere ingannato e, se dubita, pensa. Questo è il principio (meglio conosciuto nella formula del cogito ergo sum, "penso dunque sono", che compare nel Discorso sul metodo) su cui ricostruire l'edificio della conoscenza.

Dal momento che dobbiamo comunque rifiutare l'insegnamento dei sensi che ci rappresentano come dotati di un corpo, Descartes conclude di essere una sostanza pensante.

La contrapposizione fra res cogitans[1] e res extensa[2] avrà notevoli risvolti antropologici [3]

Il pensiero costituisce la sua essenza nella misura in cui esso è ciò di cui non può più dubitare. La costruzione del sapere avviene attraverso il metodo della deduzione mentre i sensi sono privati di ogni dignità conoscitiva.



Il composto anima-corpo


De Homine.
Qual è il rapporto che l’io in quanto pensiero e il corpo in quanto estensione intrattengono tra di loro?

Cartesio anzitutto esclude che il pensiero sia nel corpo «come un nocchiero nella barca»; questa era l’immagine platonica per illustrare il rapporto anima-corpo, che lasciava intatte e separate le due sostanze.

A tale possibilità Cartesio obietta che le sensazioni che abbiamo, fame, sete, dolore...ecc., ci segnalano un rapporto diretto col corpo, laddove se non si realizzasse un’unità, l’intelletto non proverebbe quei pensieri di sensazione, ma essi gli riuscirebbero in qualche modo estranei.
C’è un ulteriore elemento che ci dà la misura dell’unione intrinseca dell’intelletto col corpo,e cioè che i corpi esterni a noi intrattengono con noi rapporti che non sono percepiti come inerenti esclusivamente alla nostra corporeità, ma come benefici o dannosi a tutti noi stessi.

Anima e corpo sono dunque «mescolati», come attestano le sensazioni sia interne che esterne; ma non al punto che non sia possibile distinguere alcune operazioni «che sono di pertinenza della sola anima» e altre «che appartengono al solo corpo».

All’anima compete la conoscenza della verità, al corpo le sensazioni «che ci sono date dalla natura propriamente solo per indicare all’anima quali cose siano di beneficio, quali di danno, a quel composto di cui essa è una parte, e ciò finché non sono ben chiare e distinte».

Il corpo dà dunque all’anima le indicazione necessarie perché essa operi per la sopravvivenza del composto, ma tali indicazioni sono oscure e confuse,e la luce intellettuale deve, per conoscere la verità su di esse, provvedere a chiarirle.

Questa spiegazione puramente funzionale delle sensazioni urta però con due obiezioni che Cartesio si pone immediatamente.


Le sensazioni nocive
Il corpo però a volte ha sensazioni nocive per il composto, in ciò venendo meno alla sua funzione, ad esempio «quando qualcuno, ingannato dal sapore gradevole di un cibo, ingerisce il veleno che vi è nascosto».

Questa obiezione è facilmente superabile, in quanto al più in questo caso si può accusare la sensazione di ignorare che in quel cibo c’è del veleno, ma ben sappiamo che l’uomo è «una cosa limitata», e un caso del genere si spiega appunto considerando che la sensazione ha una capacità informativa limitata.

Più insidiosa è l’altra obiezione, che osserva che ci sono sensazioni che direttamente operano a danno del composto; ad esempio «quando coloro che sono ammalati desiderano una bevanda o del cibo, che poco dopo sarà loro nocivo» come l’idropico che prova una sensazione di sete, soddisfacendo la quale sicuramente si danneggerà.

Per rispondere a tale obiezione Cartesio tenta dapprima la strada della spiegazione puramente meccanicistica del corpo, cui addossare la responsabilità dell’errore. Istituisce il famoso paragone tra corpo e orologio, ed osserva che se si considera il corpo come una macchina di pure parti materiali, si può pensare alla malattia come ad una rottura della macchina; ma anche con questo modello non si è risposto all’obiezione, ammette Cartesio, perché le leggi di natura regolano anche un orologio che funziona male, mentre nel caso dell’idropico vengono meno. Se la malattia è da paragonarsi ad un guasto dell’orologio che ne produce il malfunzionamento, resta ancora da spiegare come mai vi si aggiunga un’attività che è direttamente contraria alla sopravvivenza del composto, e cioè il desiderio di bere.

Potremmo aggiungere, è come se l’orologio, oltre a funzionare male, si mettesse a danneggiare i suoi ingranaggi o attivasse un pulsante di autodistruzione. In tale caso di autodanneggiamento la sensazione di sete dell’idropico è «un vero errore di natura», in quanto opera in contrasto con la sopravvivenza del composto, al cui fine le sensazioni sono istituite.


L'"uomo macchina" e gli animali
Il "cogito", come capacità di autocoscienza appartiene solo agli uomini dotati di un corpo che funziona meccanicamente come una macchina: «[...] incomparabilmente meglio ordinata e ha in sè movimenti più meravigliosi di qualsiasi altra tra quelle che gli uomini possono inventare [...]» ; gli animali invece privi di coscienza sono delle semplici macchine. Solo l'uomo ragiona e parla mentre gli animali anche quando parlano in modo simile al nostro interloquire, come ad esempio i pappagalli, non fanno che ripetere dei suoni che sentono, non elaborano razionalmente dei discorsi. L'incapacità di parlare degli animali non dipende dal fatto che essi non abbiano gli organi appositi per farlo, come ad esempio le corde vocali, ma dalla loro incapacità di ragionare. Tanto è vero che pur essendovi uomini privi degli strumenti per parlare tuttavia sono superiori agli animali parlanti perché, pur essendo muti e sordi, con la loro ragione inventano segni che permettono loro di comunicare coscientemente.

Gli animali quindi sono privi di ragione e di coscienza e non provano dolore; anche quando sembrano manifestare sofferenza, in realtà reagiscono meccanicamente ad una stimolazione materiale come quando toccando una molla dell'orologio le sue lancette si muovono.[4]


Cartesio e le idee
Se io sono sostanza pensante, il mio pensiero deve essere caratterizzato da un contenuto, ovvero deve configurarsi come idea.

Cartesio distingue tre tipologie di idee:

Idee avventizie: derivano, tramite la sensibilità, da oggetti esterni e sono indipendenti dall'uomo;
Idee fittizie: da noi inventate (l'idea dell'ippogrifo o quello della chimera);
Idee innate: cioè nate con noi, sono come un patrimonio costitutivo della mente (l'idea matematica, l'idea di Dio).

Cartesio e Dio [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Meditazioni metafisiche.
(LA)
« Ex nihilo nihil fit. » (IT)
« Nulla viene dal nulla. »
(Principia philosophiae)

Con la sola forza del pensiero deduttivo Descartes propone una "prova ontologica" dell'esistenza di un Dio benevolo che ha dato all'uomo una mente e un corpo e che non può desiderare di ingannarlo. Le tre prove ontologiche, liberamente ispirate dalla Scolastica, di cui il filosofo si serve per postulare l'esistenza di Dio sono:

Siccome l'uomo ha in sé l'idea di Dio, che equivale all'idea della perfezione, ne deriva, seguendo il principio per cui la causa dev'essere eguale o maggiore all'effetto prodotto, che l'idea di Dio non può essere un prodotto della mente dell'uomo (il quale esercitando il dubbio dimostra la sua imperfezione), né dall'esterno (di cui potendo dubitarne si dimostra l'imperfezione) ma deve provenire necessariamente da un'entità perfetta, estranea all'idea di perfetto che l'uomo ha di lui: cioè Dio.
Siccome l'uomo è consapevole della sua imperfezione, non può essere stato lui l'artefice di quelle idee di perfezione che egli ha nella sua mente (onniscienza, onnipotenza, prescienza ecc.) altrimenti alla creazione si sarebbe dato codeste prerogative. Motivo per cui deve esistere un'entità che gode di quelle qualità e che abbia dall' esterno creato l'uomo: cioè Dio.
Riprendendo la prova elaborata da Anselmo d'Aosta, Cartesio afferma che l'esistenza è già implicita nel concetto stesso di perfezione: esiste un'entità superiore in quanto espressione dell'idea che l'uomo ha di perfetto (la cosiddetta prova ontologica, come Kant definirà per sostenere l'impossibilità di far coincidere il piano logico con il piano ontologico): cioè Dio.
In questo modo, si può recuperare il rapporto con il mondo sensibile senza timore di essere ingannato. Riprendendo i tre anni di studi filosofici, Cartesio recupera l'idea della scolastica medioevale di un Dio-Bene che non può ingannare né me né i miei sensi, per cui è reale il mondo che abbiamo davanti. L'errore viene pertanto attribuito non alla dimensione intellettuale dell'uomo, ma alla volontà, che asseconda nel procedimento un principio non ancora chiarito.


Cartesio glottoteta
Cartesio s'interessò anche del linguaggio. Ai suoi tempi si discuteva della possibilità dell'esistenza di una lingua a priori che egli non crede possa esservi ma ritiene che piuttosto sia possibile costruirne una seguendo queste linee guida:

dovrebbe essere una lingua molto semplice da imparare: si dovrebbe apprendere nel giro di cinque, sei giorni: per questo dovrebbe essere facile a scriversi e a pronunciarla;
tra le parole e i pensieri bisognerebbe instaurare la stessa relazione che c'è tra i numeri: un ordinamento preciso e meccanico che renda possibile una combinazione tramite sicure regole;
il primo passo da compiere per questa nuova lingua sarebbe quello di scomporre le idee complesse in idee semplici per poi effettuare ogni combinazione logica possibile.
In una lettera a padre Mersenne (20 novembre 1629) egli scriveva:

« Ritengo che questa lingua sia possibile, e che si possa trovare la scienza da cui farla derivare, così che per mezzo di questa dei contadini potrebbero giudicare della verità delle cose meglio di quanto non facciano oggi i filosofi. »


Cartesio pensava infine che si potesse tentare di stabilire i nomi primitivi delle azioni confrontando i verbi delle più diverse lingue e di dedurne le parole tramite degli affissi.


Compendium Musicae
Il motivo per il quale Cartesio studia il suono è quello di comprendere in maniera più ampia come la musica riesce a commuoverci. Egli assume di poter comprendere tale proprietà dall’esame che fa delle caratteristiche fondamentali che rendono commovente il suono, ovvero la durata ed il tono. Egli è dell’opinione che una semplice analisi matematica della consonanza possa fornirci le nozioni fondamentali sul modo di produrre il suono e quindi sulla natura della musica. Per Cartesio ogni oggetto piacevole viene percepito come semplice, le serie armoniche sono più semplici delle serie geometriche e quindi da preferire. Egli traduce i rapporti musicali in segmenti di linea in modo da renderli visibili all’occhio e quindi intuitivamente più chiari.


Cartesio suppone che la semplicità di ascolto venga rispecchiata nella semplicità visiva, privilegiando perciò la percezione visiva di segmenti di linea rispetto ai rapporti matematici.





La consonanza
Con semplici operazioni matematiche sulle linee Cartesio deriva le consonanze. Il procedimento consiste in successive bisezioni di una corda AB prima in C, con origine dell’ottava (1 / 2): AC − AB, poi in D, punto intermedio tra C e B, con origine dei segmenti AC e AD che generano propriamente la quinta (2 / 3), mentre da segmenti AD e AB deriva accidentalmente la quarta (3 / 4), DB.








Cartesio si arresta nella bisezione della retta alla lettera E, il motivo sta nel fatto che un’ulteriore divisione in F darebbe origine al tono maggiore (8 / 9):AC − AF e al tono minore (9 / 10):AF − AE, entrambi dissonanti. Cartesio definisce il rapporto di semitono come 15 / 16 riprendendo i dati di Zarlino, tuttavia se avesse continuato nella suddivisione della retta sarebbe giunto a trovare il punto G e avrebbe ottenuto valori differenti, AC / AG = 16 / 17 e AG / AF = 17 / 18.


Note alte-note basse
Nell’opera di Cartesio si trova anche tutta una parte dedicata al rapporto tra note basse e note alte. In particolare sostiene che il suono sta al suono come la corda sta alla corda, poiché una corda più corta è contenuta in una corda più lunga, allo stesso modo le note più alte sono contenute in quelle più basse, per questo la nota più bassa è la più importante. Inoltre, come Platone nel Timeo, Cartesio sostiene che le note alte hanno più velocità delle note basse. Cartesio osservò anche che ogni nota contiene la sua ottava, fenomeno che aveva già accennato Aristotele. La spiegazione per cui l’intervallo di quarta risulta essere l’ombra dell’intervallo di quinta per Cartesio ha una semplice spiegazione geometrica.








Se si prende una corda AC e la si pizzica si ottiene anche la sua ottava, quindi AC fa risuonare anche EF. Ora quest’ultima nota è effettivamente una quarta considerata a partire dalla nota suonata da DB.


Mobilizzazione del re [modifica]
Cartesio affronta anche il problema della scala di Zarlino; egli è a conoscenza dell’incongruenza della scala di Zarlino riferita all’intervallo di terza minore re-fa e a quello di quinta re-la, entrambe sfalsate di un comma sintonico pari a 80 / 81. Cartesio propone di assegnare al re due valori leggermente diversi, re e re*, il secondo più basso del primo di un comma sintonico. In questo modo le consonanze sono mantenute pure, e si stabilizza il tono mobilizzando una delle note. La mobilizzazione del re, del do e di tutte le altre cinque note fa sì che l’ottava non era più suddivisa in 12 parti, ma bensì in 19. In questo modo si può mantenere la precisione matematica, ma al prezzo di un'accresciuta complessità di esecuzione.


Consonanza
La spiegazione di Cartesio sulla consonanza è analoga a quella di Galileo. Le due corde A e B stiano tra loro nel rapporto di 3:1 e le corde A e C nel rapporto di 3:2. Se A e B vengono messe in moto nello stesso momento, A compirà un’oscillazione mentre B ne compirà tre. Segue che quando A inizia la sua seconda oscillazione, B inizierà la sua quarta, e quando A inizia la terza, B inizia la settima. In questo modo le due corde iniziano ogni oscillazione insieme a distanza di un momento. Ora se A e C vengono messe in moto contemporaneamente, A avrà completato un’oscillazione mentre C è già a metà della sua seconda, quindi C non sarà in grado di partire nuovamente con A nel secondo momento di tempo , ma solo nel terzo. Quindi mentre le corde A e C iniziano contemporaneamente solo ad intervalli di due momenti, A e B partono insieme ad ogni momento, questo fa sì che i suoni si mescolino meglio e producano un’armonia più dolce.





Cartesio sviluppa l’idea che la dolcezza delle consonanze dipende dalla frequenza con cui i battiti prodotti dai corpi sonori coincidono a intervalli regolari. Tuttavia Cartesio sostiene che la teoria matematica non può fornire un criterio di qualità estetica, criterio che dipende esclusivamente dai gusti dell’ascoltatore.


Opere [modifica]
Compendium Musicae (1618)
Regole per dirigere l'ingegno (1619)
Discorso sul metodo (1637)
La Diottrica (1637)
La Geometria (1637)
Meditationes de Prima Philosophia con in appendice sei serie di Obiezioni(1641)
Principi di filosofia (1644)
Le passioni dell'anima (1649)

Note
^ Res cogitans, sinonimo di pensiero, mente, intelletto, ragione, ingegno, spirito, io, cogito. Realtà spirituale colta mediante l’autoriflessione; è una pura sostanza, indivisibile, finita e immortale. Seguendo il percorso meditativo essa è più facile a conoscersi del corpo. E’ la prima realtà ad emergere dalle ceneri del dubbio estremo, allorché Cartesio scopre che quand’anche mi ingannassi in tutto, rimarrebbe certificata dall’inganno l’esistenza di me che mi inganno, cioè l’io sono, io esisto, oppure cogito, in quanto colui che si coglie esistente si accorge di non poter rimuovere da sé il pensiero, scoprendosi cosi identico al pensiero. Nell’uomo l’anima è unita al corpo. La modalità della loro unione dà origine al problema detto del dualismo cartesiano
^ È usato da Cartesio con due significati : come corpo preso in generale e come il corpo fisico dell’essere umano. Per il primo significato "corpo" è sinonimo di res extensa o sostanza corporea o materia o quantità che, illimitata ed eterna, costituisce l’universo fisico. Col secondo significato si intende il particolare corpo fisico che, unito all’anima, forma l’essere umano. Soggetto a cambiamenti, è un insieme di accidenti che mutano i loro rapporti reciproci, e, non essendo una sostanza, perisce. Funziona come una macchina. Fa parte delle cose materiali.
^ Contributo alla psicologia: Cartesio, introducendo la differenza tra res cogitans (il pensante, la mente, l'anima) e res extensa (il corpo che occupa uno spazio fisico) considera il corpo come una pura macchina materiale e dunque nessuno ne può vietare l'indagine naturalistica. Rendendo possibile quanto meno lo studio del corpo, veniva superata una prima interdizione riguardo allo studio della psiche da parte della Chiesa, che riservava lo studio del corpo e della mente ai teologi.
^ Sulla base di queste convinzioni la vivisezione era naturalmente accettata e largamente praticata nella fine del XVII secolo « Somministravano bastonate ai cani con perfetta indifferenza, e deridevano chi compativa queste creature come se provassero dolore. Dicevano che gli animali erano orologi; che le grida che emettevano quando erano percossi erano soltanto il rumore di una piccola molla che era stata toccata, e che il corpo nel complesso era privo di sensibilità. Inchiodavano poveri animali a delle tavole per le quattro zampe, per vivisezionarli e osservare la circolazione del sangue, che era un grande argomento di conversazione. »
(Nicholas Fontaine, Memoires pour servir à l'histoire de Port-Royal, Cologne 1738, vol.2, pp.52-53)


Bibliografia
William R. Shea. La magia dei numeri e del moto. René Descartes e la scienza del Seicento. Torino, Bollati Boringhieri, 1994. ISBN 88-339-0885-2.
Giuseppe Leone, "Il quarto centenario dalla nascita di Cartesio (René Descartes). Una "ragione" per l'Europa Unita", in "Ricorditi...di me", su Lecco 2000", Lecco, aprile 1996
http://it.wikipedia.org/wiki/Ren%C3%A9_Descartes